Corriere della Sera, 31 gennaio 2012
Caro Direttore,
è sempre più evidente che la soluzione della crisi presuppone un’adeguata governance europea, come osservavo su queste colonne lo scorso 14 dicembre.
Ma è altrettanto vero che essa ha colto il nostro Paese in condizioni di estrema fragilità, come riflesso dai principali dati di finanza pubblica del periodo1980-2010:
1) la spesa per interessi nel 2010 era pari al 4,5% del Pil, in linea con il dato del 1980 dopo aver raggiunto il picco nel 1993 (12,7%); tale voce è cresciuta esponenzialmente dal 1980 (9 miliardi di euro) sino al 1996 (115 miliardi), per ridursi a 70 miliardi nel 2010 anche per il calo dei tassi d’interesse dopo il trattato di Maastricht;
2) le spese in conto capitale si sono sostanzialmente attestate nel1980-1995tra il 4,5% e il 5,3% del Pil, per ridursi al 3,5% nel 2010; tale andamento spiega il divario infrastrutturale rispetto ai principali Paesi europei, una delle cause del deficit di competitività del Paese;
3) la spesa corrente (al netto degli interessi) è passata da 66 miliardi (32% del Pil) a 670 miliardi (43%); simile andamento per la pressione fiscale, aumentata dal 31% al 43%;
4) il bilancio primario ha registrato una serie ininterrotta di disavanzi, invertitasi nel 1992 con una stagione di avanzi sino al 2008, quando la contrazione del Pil ha riportato il saldo in disavanzo primario; l’indebitamento netto nel periodo considerato ha sempre registrato un deficit;
5) il debito pubblico è passato da 114 miliardi (56% del Pil) nel1980 a1.070 miliardi (122%) nel 1994 per il deficit spending e l’elevato costo del debito; dal 1995 al2007 haregistrato una graduale riduzione sino al 103% grazie soprattutto ai proventi delle privatizzazioni, per risalire a 1.900 miliardi (119%) nel 2010 per la contrazione del Pil dopo la crisi del 2008.
In sintesi, la spesa corrente ha sottratto risorse agli investimenti pubblici, ha causato l’aumento della pressione fiscale comprimendo consumi e investimenti privati, ha alimentato il debito pubblico vanificando le privatizzazioni e il calo del costo del debito.
La manovra di dicembre, secondo Bankitalia, aumenterà con effetti recessivi la pressione fiscale al 45%, ma era necessaria per la credibilità del Paese e per evitare uno scenario simile a quello greco. È seguita la fase due con una serie di misure «a costo zero» per la crescita: liberalizzazioni, concorrenza, trasparenza, infrastrutture, anche attraverso semplificazioni normative e regolamentari. È prevista inoltre la riforma del mercato del lavoro e quella della giustizia.
Ma per favorire l’occupazione e ridurre il rapporto debito/Pil è necessario anche un piano a medio-lungo termine per liberare le risorse per consumi e investimenti, senza creare ulteriore debito ma agendo su due leve: l’attivo (secondo il Mef una migliore gestione di immobili, concessioni e partecipazioni degli enti locali può generare 5-10 miliardi di euro annui); la spesa pubblica, con una riduzione strutturale e una riqualificazione tra spesa corrente e investimenti, nella direzione che il governo ha indicato con la riforma delle pensioni e con l’avvio della spending review.
I tagli di spesa lineari hanno consentito al Paese di contenere gli effetti della crisi nel2008-2010; ora vi sono le condizioni per eliminare in modo selettivo gli sprechi, le spese improduttive, le inefficienze. Per non compromettere la qualità dei servizi è necessaria però una riforma degli assetti organizzativi del settore pubblico, adattandoli all’evoluzione dei bisogni della collettività, semplificandone il funzionamento, eliminando funzioni obsolete, cogliendo l’opportunità offerta dal progresso tecnologico. Una riforma che dev’essere affrontata con rigore ed equità, ma anche con misure condivise e solidali: flessibilità e mobilità all’interno del settore pubblico, strumenti per promuovere la professionalità e la meritocrazia, ammortizzatori sociali. Pur avendo effetti sui conti pubblici nel medio-lungo termine, queste misure realizzerebbero due obiettivi: il primo, immediato, di ridurre i costi indiretti (spazi, utenze, acquisti di beni e servizi); il secondo, strutturale, di rendere il settore pubblico più efficiente, più moderno e a regime meno costoso.
Ogni punto percentuale di riduzione dell’incidenza della spesa corrente (al netto degli interessi) sul Pil equivale a un risparmio di circa 16 miliardi annui (2,5% dell’attuale livello di spesa), risorse utilizzabili (con quelle derivanti da una migliore gestione dei beni pubblici e dalla lotta all’evasione) per ridurre le imposte su lavoro e imprese, per creare moderni ammortizzatori sociali, per realizzare investimenti pubblici in settori strategici per la crescita; in questo contesto sarebbe giustificata la destinazione «forzosa» di una quota del risparmio privato alla sottoscrizione di titoli di Stato con un rendimento in linea con i Bund tedeschi: ipotizzando un importo di 200 miliardi (il 5% delle attività finanziarie delle famiglie), con uno spread di 500 punti si avrebbero ulteriori risorse per 10 miliardi all’anno. Un simile programma (a complemento delle tre manovre del 2011 e delle ulteriori misure già annunciate) creerebbe quel clima di fiducia indispensabile per rilanciare l’economia e per favorire in Europa il consenso sugli strumenti di stabilizzazione finanziaria (Esm, funzioni della Bce, Eurobond) e su modalità attuative del patto di stabilità più flessibili. Questo governo, per la credibilità e la fiducia di cui gode, può avviare la riforma del Paese risanandone strutturalmente i conti; è una sfida che richiede la volontà collettiva di anteporre l’interesse generale agli interessi di parte, con senso di responsabilità, coesione ed equità. La natura «tecnica» del governo presenta due vantaggi che rendono irripetibile questa occasione: 1) l’assenza di un costo politico che condizioni l’assunzione di misure impopolari; 2) la possibilità di delineare un programma di riforme che si ponga al centro del confronto elettorale del 2013: l’esito di un recente sondaggio dell’Economist (il 49% degli italiani è favorevole alla riduzione della spesa pubblica contro l’8% nel 2009) induce a pensare che gli elettori esprimeranno il voto sapendo distinguere, citando De Gasperi, tra il politico che pensa al risultato elettorale e lo statista che pensa alle generazioni future.
Paolo Andrea Colombo
Presidente di Enel
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