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Incontro con Sergio Romano

Sergio Romano, ambasciatore e storico, a “59 minuti con…” racconta gli ultimi sviluppi e le radici storiche del conflitto arabo-israeliano.

Martedì 5 febbraio ha avuto luogo un altro dei consueti appuntamenti dell’iniziativa della Fondazione “59 minuti con…” che avvicina i giovani imprenditori a personalità del mondo sociale ed economico. In questa occasione, Sergio Romano, ha spiegato che secondo lui il conflitto scoppiato a Gaza alla fine del 2008, dopo un lungo periodo di attacchi da parte di Hamas, ha avuto sicuramente anche motivazioni politiche in vista delle elezioni per il governo di Israele.

Questo conflitto si inserisce pienamente nella tipologia delle guerre del XX secolo che hanno visto un coinvolgimento sempre maggiore delle popolazioni civili, le quali vengono sollevate verso i governanti e si combatte per indebolire il fronte interno. Cominciare un’offensiva prima di un grande evento mediatico quale l’insediamento del nuovo presidente statunitense Obama ha permesso a Israele di chiudere velocemente le polemiche sulla guerra e sull’eccesso di forza utilizzata. Ma in una guerra asimmetrica, quando il grande non vince – come in questo caso – è il piccolo a vincere; Israele, con il suo attacco, ha legittimato Hamas come interlocutore e autorità del territorio palestinese. Israele è certamente un’anomalia all’interno dell’area medio-orientale; se confrontato con i vicini, è una democrazia, seppure molto frammentata e che necessita di ampie coalizioni per garantire la governabilità. Il paese inoltre si trova in una situazione difficile non solo politica ma anche demografica. Nella Palestina mandataria vivono circa 11 milioni di persone (5,5 milioni di arabi e 5,5 milioni di ebrei), mentre un milione di arabi vive addirittura all’interno dello Stato ebraico e, nonostante godano formalmente degli stessi diritti dal punto di vista sostanziale, sono comunque discriminati rispetto ai cittadini israeliani. Secondo Romano, una strategia vincente per Israele sarebbe sostenere il governo di Abu Mazen in modo da legittimarlo nei confronti di Hamas agli occhi delle popolazioni. La presenza di Israele in Medio Oriente è da considerarsi altresì anomala perché è uno Stato connotato da una religione; alla proclamazione dello Stato ebraico in Italia il sostegno era stato quasi unanime, da un lato in quanto la sua costituzione era una rivisitazione delle pretese nazionalistiche sperimentate anche dal nostro Paese durante il risorgimento, dall’altra pesava fortemente sulla coscienza europea la tragedia dell’Olocausto. Al tempo non si considerò però che non si costituiva lo Stato di Israele ma lo stato degli ebrei in un’area islamica. E’ interessante vedere quale ruolo ha l’Iran in questa vicenda. Non bisogna ritenere che Hamas sia un braccio dell’Iran e quindi considerare questa guerra un conflitto “per procura” tra quest’ultimo e gli Stati Uniti (che sono tra i principali finanziatori di Israele a cui destinano circa 5 Mld di dollari l’anno spesi per la gran parte nell’industria bellica, con ingenti forniture provenienti dagli stessi Stati Uniti). I rapporti tra Israele e l’Iran possono essere buoni: l’Iran non è antisemita ma antisionista (anzi circa 20.000 ebrei vivono nel Paese ed hanno diritto ad un rappresentante in Parlamento) e i rapporti durante il regno dello Scià erano ottimi. L’affermazione di Ahmadinejad alle elezioni è stata una conseguenza della delusione per il governo di Khatami eletto nel 1997 come il grande riformatore. Il presidente attuale appartiene alla generazione della guerra con l’Irak dell’88, ed è il primo presidente non chierico dell’Iran post-rivoluzione del 1979, quindi si serve degli Ayatollah per legittimarsi. La società civile iraniana oggi appoggia il programma nucleare di Ahmadiejad; l’Iran infatti è molto ricco ma non possiede la tecnologie di raffinazione (tipicamente americane, ma colpite dall’embargo) e quindi è costretto a importare benzina e carburanti. Da un punto di vista economico l’Iran potrebbe aver diritto a sviluppare il nucleare e anche dal punto di vista militare, in quanto circondato da Paesi “nucleari” (Israele, India, Russia e ora gli americani in Irak e Afghanistan). Più paesi con una dotazione nucleare sono evidentemente un rischio, ma va considerato che l’arma nucleare non si usa in attacco; il primo Paese che dovesse usarla sarebbe immediatamente annientato dalla comunità internazionale. Ci si dota dell’arma nucleare per guadagnare più peso e potere geopolitico e negoziale. Neanche il vicino Irak sembra essere stabilizzato. Dopo Saddam Hussein, che in quanto sunnita rappresentava una garanzia di unità del Paese, adesso il governo degli sciiti difficilmente potrà tenere insieme i sunniti sconfitti e dei curdi che hanno ambizioni indipendentiste finora domate con aiuti statunitensi. In questo contesto, un Paese che oggi si colloca al guado tra Occidente e Oriente è la Turchia. Fino a poco tempo fa si pensava che il partito del presidente Gül e del premier Erdogan, sebbene islamico, fosse sufficientemente laico per traghettare la Turchia in un’Unione Europa che, a partire dal secondo dopoguerra e soprattutto negli ultimi anni, ha contribuito ad alimentare la speranza di adesione. Oggi la Turchia si è forse resa conto che l’UE non è pronta e forse non vuole accoglierla (con posizioni fortemente contrarie di paesi come Francia e Austria) e che i lunghi negoziati sono solo un rimandare la questione a tempi da definire. La netta presa di posizione del premier turco contro Israele espressa ultimamente a Davos sembra quindi un segnale da parte della Turchia a porsi come paese chiave a guida del mondo islamico.

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