Research - Gli effetti dell'eccesso di regolamentazione sull'occupazione
Aggiornamento: 29 ago 2022
Anche nei Paesi tradizionalmente caratterizzati da un’economia di mercato, la regolamentazione economica è considerata una componente necessaria. Soltanto nella teoria è possibile ipotizzare mercati in cui la libera azione degli agenti economici porta all’equilibrio perfetto, quello dove non c’è spazio per potere di mercato nocivo al benessere dei cittadini-consumatori.
L’attributo “perfetto” non appartiene al lessico della vita reale ed un intervento pubblico è richiesto quando il mercato fallisce nel suo obiettivo teorico, e quindi tipicamente per erogare o preservare beni pubblici (difesa e ambiente), oppure per controllare ex-ante o ex-post imprese con rilevante potere di mercato se non monopoliste (regolamentazione dei monopoli naturali da parte delle autorità o interventi sanzionatori da parte dell’Antitrust).
Tuttavia, quando l’intervento pubblico cresce oltre un livello minimo, si assiste ad una erosione della libertà e la prima libertà ad essere colpita è quella economica. Ogni attività da parte di un’autorità pubblica ha infatti un costo economico che deve essere finanziato dai cittadini e inoltre anche l’attività di governo ha i suoi “fallimenti”. Secondo George J. Stigler (1971) per esempio, la cattura avviene quando chi ha un elevato interesse per i risultati della regolamentazione può allocare risorse nel tentativo di influenzare le decisioni pubbliche (la legittima attività di lobby). L’impatto delle stesse decisioni sulla collettività non mobilità, però, pari entità di risorse a fronte di un interesse frammentato tra la moltitudine di cittadini.
La regolamentazione pubblica potrebbe quindi risultare inefficiente o portare a una riduzione complessiva del benessere per la collettività. È quindi possibile affermare che esiste un livello fisiologico di regolamentazione, per risolvere i naturali fallimenti di mercato, oltre il quale l’intervento diventa patologico con costi superiori ai benefici.
L’obiettivo del presente articolo è valutare come la regolamentazione patologica sia legata all’occupazione, variabile-chiave delle politiche economiche dei governi nazionali e dell’Unione Europea (UE) dopo il vertice che ha lanciato la Strategia di Lisbona per la competitività.
Se consideriamo la libertà economica come assenza di regolamentazione patologica, possiamo esaminare la correlazione tra l’Index of Economic Freedom (IEF) pubblicato da Heritage Foundation e il tasso di occupazione di Eurostat per un campione di 10 paesi: Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Spagna, Polonia, Paesi Bassi, Grecia, Portogallo e Stati Uniti. Utilizzando il punteggio IEF ottenuto dai Paesi nel 2008 (che si riferisce all’anno 2007) e il rispettivo tasso di occupazione nel 2007, si evidenzia una forte correlazione.

Tale evidenza statistica non implica tuttavia una relazione causa-effetto. Se analizziamo come le due variabili considerate si comportano a livello di singolo Paese dal 1995 ad oggi emerge una decisa omogeneità nell’andamento ma con una minore volatilità del tasso di occupazione rispetto all’IEF. Le imprese e i lavoratori, infatti, hanno bisogno di adattarsi alle nuove politiche introdotte dai governi, i cui interventi sono invece immediatamente registrati dall’IEF al momento della loro entrata in vigore.
Il comportamento delle imprese e dei lavoratori dipende soprattutto da un tipo di regolamentazione specifica, quella del mercato del lavoro. Su questo fronte un intervento è necessario affinché vi sia una contrattazione efficiente tra imprenditori e lavoratori nonché per proteggere questi ultimi da discriminazioni o trattamenti ingiusti.
Poiché nell’UE la regolamentazione del mercato del lavoro rimane sostanzialmente nella sovranità degli Stati Membri, non ci deve stupire nel trovare un Paese altamente competitivo come la Germania, 25esimo (su 181 Paesi) nella classifica “Doing Business” della Banca Mondiale, al 142esimo posto per assunzione dei lavoratori, mentre i Paesi Bassi sono un po’ meno competitivi con un mercato del lavoro meno rigido. Per il nostro Paese, nonostante le modifiche normative intervenute negli ultimi anni per rendere il lavoro più flessibile, la competitività rimane soffocata da una burocrazia e da un sistema giudiziario i cui tempi di azione sono inefficienti.
I governi di tutto il mondo affrontano la costante sfida di trovare il giusto equilibrio tra protezione dei lavoratori e flessibilità del mercato del lavoro, ma la ricetta perfetta non esiste e la flexicurity europea rimane un neologismo che nasconde una forte eterogeneità tra i Paesi dell’UE e un risultato poco brillante della Strategia di Lisbona.
Nelle parole della Commissione europea, la “flessicurezza” è una strategia che combina una sufficiente flessibilità nei dispositivi contrattuali – per consentire alle imprese e ai lavoratori di affrontare il cambiamento – e la sicurezza per i lavoratori di mantenere il loro posto di lavoro o di essere in grado di trovarne uno nuovo in tempi brevi oltre all’assicurazione di un reddito adeguato nei periodi di transizione tra due lavori.
Secondo la Banca Mondiale, mentre la regolamentazione del lavoro in genere porta a un incremento del livello dei salari dei lavoratori, un eccesso della stessa può avere effetti indesiderabili. Tra questi una minor creazione di posti di lavoro, imprese più piccole, minori investimenti in ricerca e sviluppo, un allungamento dei periodi di disoccupazione dei lavoratori con il rischio di rendere obsolete le competenze acquisite dagli stessi; tutto ciò ha ovvie ripercussioni sulla crescita della produttività.
Stefano Riela